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ar ker @ blues bunny (sc)

Sometimes you get the bear and sometimes the bear sells you a psychotropic experience and calls it an album. “Ar Ker” by Seb Brun isn’t exactly that psychotropic experience but there is something about it that detaches you from reality.

Perhaps Seb Brun is a child borne of the arthouse for these eights songs are less about encouraging you to sing along in joyful harmony than to provide a sonic enchantment that will draw you into his world. I say there are eight songs because it says so on the label yet there is a sense of oneness that merges these songs together into a road map to somewhere else with that somewhere else being, in my magic mushroom head, a spiritual destination.

The looped and sequenced pacing increases with robotic precision, and the musical inspiration seems to draw upon on religious chants of now and then and east and west, yet the artistic purpose that would be the customary point of an album like this is always in the distance. This isn’t, of course, a bad thing as often it is the journey rather than the destination that matters.

An album that needs to be completely absorbed, “Ar Ker” is man and machine shining light into the fog and, if your frame of mind suits such a thing, Seb Brun will take you on a journey to somewhere that is everywhere.

ar ker @ music map (it)

L’ibridazione tra percussioni ed elettroniche non può considerarsi formula certo nuova ma, quanto all’esito estetico di tale cimento, esso dipenderà dal grado di progettualità e dalla visionarietà in termini di sound-design; forse anche (e non troppo paradossalmente), nel caso dei musicisti di formazione percussiva e/o batteristica, dalla disponibilità a sacrificare alquanto il proprio instrumentarium (o gesto) percussivo a favore del risultante suono di sintesi.

Sacrificio verosimilmente oneroso ma produttivo stante quanto sembra raccogliersi (almeno in parte) dagli esiti di Ar Ker, opus individuale del battitore e creativo transalpino Sébastien Brun, qui devoluto su batteria, elettroniche e voce, e che abbiamo invitato a condividere con noi (a distanza più che sociale e con filo diretto in web) le impressioni d’ascolto, infittendole di utili nozioni e commenti.

Ho studiato alcune musiche considerate tradizionali (benché io non sappia che farmene di un simile termine), ma in Rajastan, in Etiopia o a La Réunion le percussioni vi rivestono un ruolo di canto”.

Se l’intro è in effetti connotato da alcune esotiche coloriture vocali ascrivibili alle esperienze di viaggio del Nostro, articolate tra le suddette aree, l’esito non riesce particolarmente personale (e, giusto per spirito d’assimilazione, non troppo dissimile da quella di eclettici performers tali Richard Bona o Mino Cinelu) ma se ne coglie una progressiva strutturazione in forma d’incantatoria cantilena che va quindi incarnandosi in un passaggio di organica e potente sintesi percussivo-elettronica, di vocazione ipnotica e non poco sciamanica, con progressiva disgregazione della pulsazione ritmica ma anche con segni in crescendo della partecipazione fisica del battitore, puntando verso piste più lisergiche e relativamente rockeggianti, per poi acquisire fuori schema anche segni techno e dance.

Insomma, un plastico canovaccio in cui si va abbandonando ogni risaputa fisionomia da drum-set in azione, per convergere verso un flusso ritmico-figurativo via via più strutturato e possente, che potrebbe (e nemmeno troppo alla lontana) richiamare, seppur con progettualità assai personale ed un’illusoria cornice da comfort-zone, di fatto ansiogena, l’operato di assimilabili percussionisti creativi, tali il nostro Michele Rabbia o l’elvetico Samuel Rohrer, in cui la tessitura ritmica sembra trasformarsi in un flusso melodico.

Se non conosco del tutto il lavoro di Samuel, mi riconosco completamente nell’approccio di Michele; e comunque tutti noi tre operiamo incorporando il medium elettronico, magari per estendere il canto (e non il campo) della batteria”.

Per un (dichiarato) percussionista e sperimentatore come Seb Brun, il “sacrificio” non è dunque a carico del gesto percussivo (in effetti assai veemente, e turbolento a tratti) quanto appunto della performance batteristica di maniera, a tutto vantaggio di un’eruttiva espressione; ad esempio un passaggio di critica densità quale Empty “contiene la giusta concentrazione di barbarie, surrealismo, meccanica, vuoto e deprivazione” secondo le parole di Brun, certamente espresse ben fuor di banalità, lasciandoci aperto il quesito circa la netta presa di distanza da ogni palese fisionomia jazz, vista la sua dichiarata formazione che vanta ascendenze nella prestigiosa legacy di Steve Coleman, così come nelle ispirative figure di batteristi tali Tom Rainey o Jim Black.

E’ già da un po’ che io torno al concetto di quanto il termine “jazz” sia complicato da definire, e dunque non rientrerò nella problematica dell’amalgama con l’estetica jazz, chiedendomi se i suoi confini si arrestino al free... o al noise; persiste tutto un dibattito sulle sue frontiere, sulla sua permeabilità. Il jazz newyorkese degli anni ’90-2000 fa totalmente parte della mia cultura, mi ricordo di quanto sia stato folle l’ascolto a distanza ravvicinata di Jim Black, esperienza determinante che mi ha condotto a fare con lui diversi workshop, ed ugualmente sconvolgente l’ascolto di ScienceFriction con Tom Rainey, in tutti questi casi l’approccio melodico della batteria e la nozione di canto della stessa sono assai evidenti”.

Sospinti da una determinante combinazione di groove e drone, i crudi e catartici materiali di Ar Ker concretizzano una lezione, non certo involontaria, di organica sintesi dagli esiti non scontati, stante l’elevato grado partecipativo imposto (più che suggerito) all’attore-ascoltatore, avocando primariamente il diritto di agire al di fuori del canone stilistico e, concludendo con le parole dell’Autore : “Riprendo ancora la mia domanda: dove ha termine il jazz? Forse non è altro che un modo di fare e vivere, e trasmettere un senso della musica, non soltanto concatenazioni d’accordi, ed amo la cornice posta da quei grandi musicisti: principi semplici (o complicati) per cui tutto è permesso!”.

by Aldo Del Noce

ar ker @ esprits critiques (be)

Les apparences sont parfois trompeuses. Les informations glanées ça et là semblaient faire de l’album de l’artiste français un objet expérimental, aride et sans doute un peu difficile. Peut-être à cause des références à la musique concrète, à la démarche qui mêle l’improvisation et un vrai goût de l’aspect mathématique de la musique tel que relaté dans cette intéressante interview. Allez savoir. Mais comme il y est dit, la musique est une vibration et elle s’adresse au corps. Message reçu à 100%.

Comme toujours, il est difficile de commenter du son mais la subtilité avec laquelle il lance progressivement Ker est remarquable. Tout s’enchaîne, tout se suit, tout progresse. D’ailleurs, cet album est aussi proposé d’une traite dans le lecteur Bandcamp et si tout le monde n’a pas 33 minutes pour se faire une idée, en isoler une partie ne donnerait qu’une image tronquée de l’ensemble. D’ailleurs, cet album est revendiqué comme étant enregistré en live sans overdubs, ce qui est parfaitement cohérent avec le résultat.

On entre donc progressivement, comme on prend sa place pour un live. Et c’est plutôt organique, avec du chant (en créole, mais on ne nique pas pour une fois), une utilisation de répétition, de mélopée pour constituer un mélange sans grumeaux, pour un résultat de transe légère.

La structure de cet album est assez proche de celle d’Owen Pallett dont on vous parlait récemment, avec des groupes de morceaux séparés par des intermèdes musicaux. Interlude I pousse le curseur vers des sons plus industriels, avec un rythme qui s’intensifie et sert de rampe de lancement à Koroll tout en marquant un point de basculement de l’album. Et c’est peu de dire que ça pousse. C’est dense, avec un sens de la répétition parfaitement balancé par des apports extérieurs, une distorsion judicieuse et un sentiment de puissance assez jouissif. Il faut remonter à Health pour des plaisirs similaires.

La pression doit forcément se relâcher. Mais pas pour longtemps, le faussement nommé Empty se gave d’intensité et de lourdeur pour que ça puisse se serrer de nouveau.

On ne l’a pas vu venir. Pas sur papier où on sentait un album plus cérébral. Ni avec un extrait qui montrait certes déjà que c’était puissant et organique mais ne présentait pas une image complète. Ni avec des premiers morceaux tout en progression. Plus qu’un album, c’est un set, voir un trip qui est proposé ici. Les live ne sont certes pas sur le point de reprendre, mais ceci devrait en constituer une matière de premier ordre. En tant qu’album, c’est une irrésistible fusée à étage qui vous propulsera sur orbite à chaque fois.

Marc @ Esprits Critiques

AR KER @ ROCKERILLA

Andare avanti o indietro con la proto-arte, la proto-melodia, la proto-musica. Da soli si fa meglio nel rumore dell’informazione assordante, isolati ci si può ancora concentrare, che in questo caso è rabbia, solitudine, ricordi di desolazione. Ecco che la musica di questo ragazzo non appartiene al tempo immediato, ma all’origine del suono, per chi se ne fotte stramaledettamente del senso compiuto e della melodia. Soffrendo. La voce apre, ed è quella che verrà, i suoni svolgono la voce come stando nella stanza di Alvin Lucier ma popolata di fotografie di banlieues con quel senso della musica nuova rock sperimentale francese di essere ancora: tagliare la testa al re. Monaco del suono. Luca Pagani

ar ker @ point break (fr)

eng

Ar Ker immediately evokes the tiny beats the beginning of a Horns live set the Météo festival in Mulhouse in 2019. The quartet led by Sebastien Brun delivered its electronic movements, its ultra-powerful and clearly hypnotic squeaks and scratches. The long ascending phase delivered micro-events and hairy paradoxes, destabilized everybody and ended up winning the ear’s approval without any difficulty. From the ear but also from the body. Seb Brun launched a physical music at high speed. With Ar Ker, the drummer completes this state of mind, complete the reinforced concrete of Parquet’s techno music. Just as brutal, just as fine. Recorded live, solo and in Brittany, the 33 minutes of this album are as much about physical trance as Horns was. The major difference between the two project is the a cappella vocals that open Bob Zarkansyèl. And Seb Brun flirts with an introspective and frighteningly moving shamanism. The voice is tenuous and fragile. It leaves the mind of the listener the necessary amplitude to imagine the deflagrations in the four phases to come. Four phases during which we dig our furrow, our nest (possible translation of Ar Ker in Breton) in the noise and electronics shaped at sight, precise as the devil and divinely explosive. It’s haunting, wandering and it makes you wanna go screamin’ with the seagulls along the dunes of northern Finistère.

fr

Ar Ker évoque d’emblée les battements minuscules, encore à peine perceptibles du début d’un set de Horns à sa création lors du festival Météo à Mulhouse en 2019. Spectateurs sur la circulaire, le projet en quartet livrait ses mouvements électronique, ses grincements et grattements ultra puissants et clairement hypnotiques. La longue phase ascendante, percluses de micro-évènements et de paradoxes velus réglait, déstabilisait et finissait sans aucun mal à remporter l’adhésion de l’oreille. Mais aussi du corps. Sebastien Brun y lançait à vive allure une musique physique. Avec Ar Ker, le batteur prolonge cet état des choses, prolonge aussi le béton armé de techno de Parquet. Tout aussi brutal, tout aussi fin. Enregistré live, en solo et en Bretagne, les 33 minutes de cet album sont elles aussi portées sur la même transe physique que celle de Horns. À cette différence près, majeure pour l’album : le chant a cappella qui ouvre Bob Zarkansyèl. Et Seb Brun de flirter avec un chamanisme introspectif et redoutablement émouvant. La voix, ténue et fragile, est pleine de mini-gwerz très roughs. La voix laisse à l’esprit de celui qui écoute l’amplitude nécessaire pour imaginer les déflagrations dans les quatre phases à venir. Quatre phases durant lesquelles on creuse notre sillon, notre nid (trad possible de Ar Ker en breton) dans le bruitisme et l’électronique façonnés à vue, précis en diable et divinement explosifs. c’est lancinant, c’est baladeur et ça donne envie d’aller gueuler avec les mouettes le long des dunes du Finistère nord.

ar ker @ muzzart (fr)

Touche-à-tout venu des mathématiques, du rock et des musiques d’écriture contemporaine, Sébastien Brun est batteur, producteur et compositeur. Nombreux, et divers, sont ses projets. Celui-ci, mené en son nom, combine batterie et électronique. Typé, noisy parfois (l’excellent Interlude I, qui débute nerveusement pour ensuite louvoyer dans les cieux au son d’une électronique tumultueuse), il crée des atmosphères singulières. Si Intro est fait de silence, l’intime qui va suivre, sous la forme de ce Bob Zarkansyel (Zanmari Baré) murmuré et dénudé, à la voix sensible, se montre prenant. Un pouls électro discret porte la chanson, évocatrice. Celle-ci trouve son prolongement dans Ker (qui, en langue régionale, signifie endroit fortifié, château fort, citadelle, puis village et au final endroit habité), qui finit par s’intensifier et se faire, presque, tribal, incantatoire même. Il y a du mystique dans ce titre, hanté par la capacité de Sébastien Brun à posséder l’auditoire. Notre homme met un point d’honneur, à l’instar de tout ce qu’il entreprend culturellement, à prendre le contre-pied de ce à quoi on peut logiquement s’attendre. Il greffe à son oeuvre des encarts bruitistes, mesurés ou plus expressifs, qui en accroissent l’étendue. Son disque, de choix, est exigeant. Ne nous en étonnons pas, c’est le cas de la grande majorité des essais avec lesquels, à l’écoute, on vit.

Passé la terminaison alerte du morceau, et l’Interlude I cité plus haut, Koroll frise la tachycardie, instaurant un fracas bien orchestré. On est délibérément, chez Seb brun, dans un autre chose musical. Des motifs “folkloriques”, en boucle, rendent la plage obsédante, en décorent l’orage qui, au fur et à mesure du temps, s’épaissit. Arrive alors Empty, placé lui aussi au mitan de l’emporté et de l’immersif, dont les sons répétés ont des conséquences…psychotropes. En artiste défricheur, Brun prolonge l’errance, module ses fréquences. soudainement? il nous lacère. Soniquement, dans l’effet produit aussi, son Ar Ker synonyme à la fois de repli et d’ouverture est une pièce maîtresse. On y est certes éconduit, perdu dans des recoins stellaires tantôt rêveurs, tantôt plus brutaux. Mais étrangement, on s’y laisse volontiers prendre. On s’y oublie, dans le rempli, avant de s’ouvrir à nouveau, dans le renouveau engendré par l’expérience.

Ainsi passent Interlude II, invisible, puis le terminal Frozen. Enregistré live et sans overdubs, Ar Ker prend les sens une dernière fois sur cette fin réitérée, où la frappe saccadée de la batterie affronte une trame cosmique. Hypnotique, nacré de petits sons malins, Frozen achève donc un album singulier, audacieux et ode à cieux, de caractère, qu’il importe de jouer et rejouer pour au final y sombrer de façon jouissive. Comme l’est la fin, barrée et spatiale, dans une agitation captivante, de ce Ar Ker unique.

Time Elleipsis @ Mediapart

Le travail de Frederick Galiay tient d'une sublimation du bouddhisme par la puissance du son. Lauréat du programme de résidence "Hors les murs" initié par l'Institut Français, le bassiste, fan d'électronique autant que d'électricité, s'est immergé pendant plusieurs mois, et après vingt ans de voyage dans la région, dans les cérémonies millénaires du Bouddhisme Theravāda et divers rituels animistes au Myanmar, au Laos, en Thaïlande et au Cambodge. Il y a composé une suite pour six instrumentistes qui marie sa quête asiatique avec le free jazz et le drone. La Bouddhisme n'est de toute manière pas ce que les Occidentaux en imaginent. J'en veux pour preuve, par exemple, l'intolérance meurtrière à l'égard des musulmans Rohingyas au Myanmar ou le financement du Dalaï Lama par la CIA. Le Theravāda, proche du bouddhisme primitif, échappe peut-être au dévoiement habituel de toutes les religions qui continuent à faire des ravages sur la planète. J'imagine néanmoins que pour s'approcher des intentions de Frederick Galiay il faut diffuser Time Elleipsis - Chamæleo Vulgaris à fort volume. La saturation est son premier pays. Les percussions massives de Sébastien Brun et Franck Vaillant ponctuent les continuum joués par Antoine Viard au saxophone baryton électrifié, Jean-Sébastien Mariage à la guitare électrique, Julien Boudart au synthétiseur analogique et Galiay à la basse électrique. Vers la fin l'orchestre explose comme un faux ensemble avant de trouver une sérénité espérée depuis le début de cet étonnant cérémonial.
→ Frederick Galiay, Time Elleipsis - Chamæleo Vulgaris, CD Ayler Records, 13€ (existe aussi en version numérique), à paraître le 9 février 2020